Una chiazza rossa giace in un calice brillante; tediosa ripetitiva musica si stende fra luci colorate smorte su spray effetto-neve e risate metà olandesi, metà studentesche; monta la certezza di non essere nel posto giusto.
Coi gomiti sulla spugna verde inseguo l'ultima parola di sintesi e fuga da annotare sul taccuino; il pub rimarrà nella memoria...
"Incospicuo", mormora il ragazzo in blusa a scacchi sollevando sul bancone un vassoio di bicchieri che gli appannano gli occhiali.
"Incospicuo, grazie... non l'hai chiamato Sherlock solo perché è la prima entità inglese che t'è venuta in mente."
Serro il libretto nel palmo e continuo la fuga all'esterno, oppresso dal cielo basso e elettrico; le note del Bolero balzano soffiate fra i vicoli e le logge, sopra le facciate e lambendo le finestre solitarie di una città morta, perché è Dicembre - il resto è vetrina e fantasma del Natale futuro.
E' questo il momento di fuggire la noia, quando l'alcool basta a sognare il contatto, il respiro della folla sveglia che attende solo me. Non rimanere solo lungo la strada, è l'imperativo; eppure scorro in fretta e schivo chi si muove fluido e misurato, in compagnia e a suo agio, come se appartenessimo a notti parallele, a orchestre rivali.
Sotto un portico rialzato camerieri in nero piroettano fra locali gemelli dove bellissima gente - così appare nella distante clausura dei bruciatori, dei cappotti serrati, delle lucide labbra, dei sorrisi, degli occhi aperti per altri occhi - consuma il suo tempo, ma vado oltre per osservare poche vecchie bici incastonate sotto volte di lanterne e cavi tesi, onnipresenti, ingannevoli linee di fuga.
Giro nel buio verso la musica, non saprei darle un nome (un fantasma lungo rimane impresso, nel passaggio più luminoso, sul sensore di un fotografo di viali e luminarie): lo trovo all'angolo di una strada fredda, vestito per il gran concerto, e potrebbe essere il flauto traverso più virtuoso del mondo. Forse un giorno il suo fiato varrà qualcosa; mi fermo ad ascoltare cercando nelle tasche.
Al proprietario curvo manca un mignolo, nell'antro notturno segnato da scale ripide, scarti di un pasto cinese e un raro gatto.
"Non abbiamo da cambiare", dice guardando sopra le mie spalle quando entro e mi fermo dopo un passo.
Troppo ansioso per comprendere, ottengo comunque un bicchiere e un posto ad un tavolo sbilenco con la schiena alla parete. E' così sgraziata, vicina alla Terra questa inseparabile collezione di vecchio mobilio e bevitori, che mi chiedo come mai non ci sia selezione all'ingresso.
Cresce in ritardo la convinzione di poter parlare solo con chi pago, posto che scambiare parole sul tempo e battute di surreale incomprensione con estranei sia parlare - e accidenti se lo è, lo è davvero, perché gli estranei sono un'invenzione. Tratto tutti male allo stesso modo, sempre, in attesa che qualcuno semini nuove asole nel mio cappotto e mi lasci in pace, a scivolare nella calma fibrillante, in rivoli inarrestabili, come l'ennesimo fondo scuro di sedimenti e bruciore che fisso a lungo per mantenere la testa ferma.
Scrivo in regime di sintassi libera; i battiti della gamba corta scandiscono le righe e penso di non aver mai ballato con un tavolino così incantevole.
Fuori oscillo.
Nella piazza irregolare e vuota guardo il lastricato indossando e togliendo i guanti ruvidi e chiedendomi quale sia il prezzo di una risata ferocemente libera, senza compromessi e freni. Non ho abbastanza denaro con me.
Tre anime attardate si avvicinano chiedendo di farsi fotografare. "Forse un giorno varrà qualcosa..." dico a mezza voce arretrando. Riservo loro l'angolo a sinistra, contro l'oscuro panorama: ne saranno delusi. Ma detesto il centro. Ogni cosa è ai margini, alla periferia dello sguardo. Non muovere gli occhi, ora, lo farai fuggire.
Coi gomiti sulla spugna verde inseguo l'ultima parola di sintesi e fuga da annotare sul taccuino; il pub rimarrà nella memoria...
"Incospicuo", mormora il ragazzo in blusa a scacchi sollevando sul bancone un vassoio di bicchieri che gli appannano gli occhiali.
"Incospicuo, grazie... non l'hai chiamato Sherlock solo perché è la prima entità inglese che t'è venuta in mente."
Serro il libretto nel palmo e continuo la fuga all'esterno, oppresso dal cielo basso e elettrico; le note del Bolero balzano soffiate fra i vicoli e le logge, sopra le facciate e lambendo le finestre solitarie di una città morta, perché è Dicembre - il resto è vetrina e fantasma del Natale futuro.
E' questo il momento di fuggire la noia, quando l'alcool basta a sognare il contatto, il respiro della folla sveglia che attende solo me. Non rimanere solo lungo la strada, è l'imperativo; eppure scorro in fretta e schivo chi si muove fluido e misurato, in compagnia e a suo agio, come se appartenessimo a notti parallele, a orchestre rivali.
Sotto un portico rialzato camerieri in nero piroettano fra locali gemelli dove bellissima gente - così appare nella distante clausura dei bruciatori, dei cappotti serrati, delle lucide labbra, dei sorrisi, degli occhi aperti per altri occhi - consuma il suo tempo, ma vado oltre per osservare poche vecchie bici incastonate sotto volte di lanterne e cavi tesi, onnipresenti, ingannevoli linee di fuga.
Giro nel buio verso la musica, non saprei darle un nome (un fantasma lungo rimane impresso, nel passaggio più luminoso, sul sensore di un fotografo di viali e luminarie): lo trovo all'angolo di una strada fredda, vestito per il gran concerto, e potrebbe essere il flauto traverso più virtuoso del mondo. Forse un giorno il suo fiato varrà qualcosa; mi fermo ad ascoltare cercando nelle tasche.
Al proprietario curvo manca un mignolo, nell'antro notturno segnato da scale ripide, scarti di un pasto cinese e un raro gatto.
"Non abbiamo da cambiare", dice guardando sopra le mie spalle quando entro e mi fermo dopo un passo.
Troppo ansioso per comprendere, ottengo comunque un bicchiere e un posto ad un tavolo sbilenco con la schiena alla parete. E' così sgraziata, vicina alla Terra questa inseparabile collezione di vecchio mobilio e bevitori, che mi chiedo come mai non ci sia selezione all'ingresso.
Cresce in ritardo la convinzione di poter parlare solo con chi pago, posto che scambiare parole sul tempo e battute di surreale incomprensione con estranei sia parlare - e accidenti se lo è, lo è davvero, perché gli estranei sono un'invenzione. Tratto tutti male allo stesso modo, sempre, in attesa che qualcuno semini nuove asole nel mio cappotto e mi lasci in pace, a scivolare nella calma fibrillante, in rivoli inarrestabili, come l'ennesimo fondo scuro di sedimenti e bruciore che fisso a lungo per mantenere la testa ferma.
Scrivo in regime di sintassi libera; i battiti della gamba corta scandiscono le righe e penso di non aver mai ballato con un tavolino così incantevole.
Fuori oscillo.
Nella piazza irregolare e vuota guardo il lastricato indossando e togliendo i guanti ruvidi e chiedendomi quale sia il prezzo di una risata ferocemente libera, senza compromessi e freni. Non ho abbastanza denaro con me.
Tre anime attardate si avvicinano chiedendo di farsi fotografare. "Forse un giorno varrà qualcosa..." dico a mezza voce arretrando. Riservo loro l'angolo a sinistra, contro l'oscuro panorama: ne saranno delusi. Ma detesto il centro. Ogni cosa è ai margini, alla periferia dello sguardo. Non muovere gli occhi, ora, lo farai fuggire.
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