giovedì 15 gennaio 2009

Cerco casa a Milano - Part deux

E per esorcizzare l'orrore sento l'impulso di raccontare, sotto una patina di falsità che ne preservi la fedeltà, cosa ho visto negli anni passati cercando una stanza in affitto a Milano...

Pratica n°2
Milano, via Padova, esterno sera.
Sirene ululano in lontananza, sirene e lampeggianti soffocati dal grigio giallastro smog incombente, un manto pietoso per travestiti latini e arabi sobri marci. Al segnale convenuto, come in concerto, braccia tremanti serrano lucchetti e tirano giù saracinesche cigolanti; il fragore richiama dalle tane di bizantino ozio le oscene violente creature del crepuscolo, poi si spegne in un'eco sinistra, la morente risata del giorno, l'ultima campana per chi ambisca mollemente a un'illusoria sicurezza. Io rimango impassibile e schiaccio un mozzicone ardente, osservo la scena nella fredda luce di un kebab all'angolo, dove nessuno sembra parlare la mia lingua, nessuno può esser guardato negli occhi.
Ma sono ancora vivo - e chiaramente con una buona scorta di stereotipi noir!
Stando agli inoppugnabili quotidiani gratuiti per pendolari e al sentire comune, posso affermare che non troverò mai un covo di feccia e di malvagità peggiore di questo; inoltre la mia immaginazione imbevuta di letteratura di genere rende questa strada ancor più brulicante e dannata. Ho un ottimo presentimento: sarà la mia nuova casa?
Mi avvio fiducioso schivando le camere singole economiche di cemento armato e le mini-discariche di un sottopassaggio buio. Poi il segno sfavillante: in fondo al tunnel, mani gigantesche su un cartellone discretamente illuminato come San Siro mi accolgono e mi invitano ad ascoltare la parola di Dio e unirmi al gregge. Come un tenebroso antieroe, sprezzante dell'aiuto evidentemente offerto dalla Provvidenza - nella forma di sorridenti energumeni biondi dal volto di bambini e targhette dorate da anziani - proseguo a testa alta, avendo ormai trovato la mia strada.
In teoria.
Mi fermo spaesato davanti ad un antro fuligginoso e deserto. 'OFFICIN/ A_FA', dice il cartello penzolante.
Rileggo l'annuncio stampato: "Trilocale arredato, vicinanze via Padova, libero da subito". Per quanto lo esamini attentamente, non v'è nessuna menzione di olio motori e calendari di Max.
Ma oltre i locali dell'officina, il grande passo carrabile si apre su un vecchio atrio dalla geometria imperscrutabile, fatta di molti ingressi arrugginiti, scale di pietra levigate dall'uso e dalla pioggia, passaggi di cui non s'intravede la fine. Spinto dall'inquietudine crescente, con gli occhi sbarrati del tonno intrappolato fra le flotte a Lepanto - dato che ho appena superato i locali di un qualche comitato della Lega Nord - varco l'ingresso e scopro una pulsantiera.
Suono e rimango ad ascoltare con particolare attenzione le indicazioni della donna, avendo in dotazione il senso dell'orientamento di un navigatore satellitare rotto su Marte.
"Ora ti apro il portone; attraversa ed esci dall'altra parte"
"Bene, arrivo-"
"Poi stai sulla sinistra del giardino - non preoccuparti del cane, è buono, non morde, prendi il passaggio con l'insegna del parrucchiere e in fondo..."
"...mmm..."
"...dopo le gabbie di conigli prendi le scale con la ringhiera, sul pianerottolo trovi due porte di ferro, apri quella rossa - ah, la chiave è appesa al gancio alto - ti fai tutto il corridoio scoperto, poi ci sono delle scalette e sei praticamente arrivato."
"Signora, che faccio coi dolcetti sul tavolo?"
"Eh?"
"Dico, può ripetermi i passaggi dal giardino in poi?"
Catapultato incredulo in una casbah meneghina, finisco gli ultimi, stretti, alti, viscidi gradini esposti agli elementi reggendomi strenuamente alla ringhiera e finendo di seminare, con fiabesca previdenza, briciole di piadina per kebab.
In casa c'è una donna dall'aria assente, se mi perdonate il controsenso. Stinta, decolorata anzi, e secca, sembra stesse volando piuttosto alto prima che suonassi al suo citofono rompendole il trip.
Per iniziare col piede giusto, il trilocale ne ha due. A onor del vero, la stanza in cui sono entrato è spaziosa, con lato cucina e soggiorno teoricamente separati - o meglio, così suggerirebbero con un po' di immaginazione le nude pareti e il muretto divisorio, se l'arredamento non fosse stato brillantemente concepito, accuratamente disegnato e scrupolosamente supervisionato da un'orda di gremlin incazzati.
Sul pavimento schivo un materasso chiazzato appartenente di sicuro ad una tigre dall'umore mercuriale e dalla dieta orribilmente sbagliata, ciotole piene a metà d'acqua stagnante, lettiere colme per gatti obesi. Non si contano i piatti rosa, le tovagliette e le tazze di Hello Kitty sparsi per la stanza; si contemplano, poi, imperscrutabili mestoli e colini allo stato brado; nell'aria impera l'inconfondibile puzza dei suddetti felini da compagnia.
Il mio sopracciglio mentale di disapprovazione è già inarcato allo spasimo da diversi minuti. Quel poco che resta della casa - piena di peli, malridotta e maleodorante come Robin Williams in La leggenda del re pescatore - nonché la sua esclusiva collocazione nelle viscere labirintiche dei bassifondi mi persuadono che sto solo perdendo tempo.
Ma ciò che stimola la mia esiziale curiosità è che non ho visto gatti, né qui, né all'esterno, nei meandri appena attraversati. Strano. Inizio a pensare si tratti di una gattara di gatti invisibili. Il tipo peggiore.
Lei mi guarda con un accenno di sorriso, avendo capito che sono nel posto sbagliato.
Io sorrido accondiscendente, avendo anche capito che è meglio non fare mosse brusche.
"Allora...ehm... ha molti gatti?"
"Sono dell'inquilina che se ne sta andando."
"Aaah, ecco, li ha già portati via..."
"No, sono sul balcone di dietro."
"Oh, c'è un balcone! Posso vederlo?"

Maledetto - mi udite, misericordiose potenze? Maledetto sia il mio scrupolo pignolo, maledette le palpebre sottili che non schermano dal vero orrore.
Ancora adesso, quando la massa polimorfa miagolante e strusciante graffia i margini delle mie visioni febbricitanti, quando rivedo scostarsi, come un ibrido sipario, le tende di plastica nel caos esploso che l'eterea proprietaria chiamava cucina, mi interrogo su come abbia guadagnato l'uscita, come abbia ritrovato la strada, come sia sopravvissuto alla folla ignobile, e rido; un ghigno lunatico potreste scorgere sul viso stravolto se mi vedeste mentre scrivo, con le parole inadatte di chi non è poeta né sufficientemente folle, di cosa voi ignorate ma vive, vive ugualmente e si stira e si contorce e fa le fusa oltre il portone scuro, oltre i passaggi che si moltiplicano, oltre le scale ripide, nella strada in cui i piccoli crimini umani sono solo la rassicurante, precaria façade dell'abisso d'aliena, pelosa vertigine.

* * *

Eppure, con l'animo scosso ma indomito, la mia ricerca continua... alla prossima puntata.

martedì 30 dicembre 2008

La visita

Una storia post-natalizia di hybris e tombola. No, sul serio.

A. camminava solitario, un motivetto a fior di labbra, verso l'ultima visita natalizia nel paese dei padri.
Né la pioggia mattutina fredda e ostinata, né un cagnetto rabbioso che lo fece sobbalzare abbaiandogli contro, e nemmeno il dover tornare sui suoi passi al trivio contorto dove aveva imboccato la via sbagliata intaccarono il suo buon umore: suonò il campanello ad una porta al pian terreno ed attese, dondolandosi allegro sulle suole e sfilandosi i guanti con cura.
All'interno le tende ricamate si scostarono; un occhio spalancato lo esaminò a lungo.
Fu introdotto nell'ingresso in penombra da una imponente donna in nero, spilloni d'argento appuntiti fra capelli tirati d'un bianco brillante; impassibile e senza un cenno lo guardò togliersi il cappotto e posare l'ombrello in un angolo.
Improvvisamente incerto sul da farsi e vagamente a disagio, sfoderò un mezzo sorriso; si vide parlare nel grande specchio dalla cornice rococò dorata al lato opposto della stanza - la sagoma scura lo sovrastava statuaria.
"Auguri... la signora Tina è in casa? Sono il nipote di..."
"Sì, sta giocando. Intanto gradisce?"
La donna indicò con un ampio gesto teatrale un vassoio d'argento; su di esso erano allineati rugosi biscotti alle mandorle ornati da grossi canditi verdi. Sembravano stantii.
Non voleva, ma ne prese uno per mera cortesia.
"Io non... beh grazie. E potrebbe avvisare la signora..."
"Aspetti qui. Hanno quasi finito" disse voltando appena la testa verso una doppia porta a vetri chiusa.
Senza aggiungere altro, si voltò per tornare in cucina a grandi passi, strofinandosi le mani callose sui fianchi.
"Veramente avrei fretta..."
Entrò in cucina, la porta si richiuse di scatto.
Con un'espressione stranita sul volto e il cappotto in mano, il ragazzo rimase solo.
Cercò di rassegnarsi ad aspettare, nonostante avesse altri programmi: valigie da finire, disposizioni da dare, un aereo da prendere; andava ripetendo l'elenco dettagliato in mente per non dimenticare nulla. Si guardò intorno. Era circondato da antica mobilia ben lucidata, merletti su ogni superficie, cera sul pavimento di marmo grigio. Alle pareti, schiere su schiere di minuscoli ritratti in spesse cornici di legno. Fuori la pioggia scrosciava, e non si sentiva altro rumore. Nell'aria, un tanfo di chiuso e detergenti, nonché un pungente odore di verdure bollite, insinuatosi quando la porta della cucina era stata aperta.
Contemplò impaziente la porta a losanghe di vetro opaco; nessuna sagoma si muoveva, in quella stanza fiocamente illuminata.
Si avvicinò allora, con passi misurati, alla grande specchiera. Una tenuta impeccabile ma discreta. Così diverso dai compaesani. Così diverso il suo spirito - quest'ultima visita e via verso la città! E lassù lei... sentì la sua mano accarezzargli la spalla, sorrise al pensiero del suo imprevedibile estro, ricordò quanto l'avessero divertita e sorpresa i racconti sulle usanze locali di fidanzamento e matrimonio, sui gretti litigi, sulla mentalità chiusa di commercianti, contadini semi-urbanizzati e ottusi arricchiti. Lui rideva, ma in fondo ne era anche spaventato - troppo incombenti, troppo veri.
Dalla stanza accanto proruppe una voce, anziana e affannata.
"E Maria... quella povera donna. Tutta la vita a lavorare, e con che si ritrova? Niente! Tutto i figli si son presi, tutto, e non le hanno lasciato niente..." parlava trascinando le vocali in un antico lamento. "Ma che mala razza sono! Lei è sempre in chiesa, anche malata. Si deve riprendere e..."
"Che disgraziati..." una voce ben più giovane e scandita la sorpassò sgarbatamente. "Quella, Chiara, che ha quarant'anni e va in giro come una ragazzina, e dice che di mestiere dipinge", enfatizzò con disprezzo, "e quell'altra-"
"...Maria... OTTANTUNO", annunciò perentoria la voce piena e matura di un'altra donna.
Stanno semplicemente giocando a tombola.
Si avvicinò alla porta a vetri fermandosi ad un passo: qualcosa lo dissuase. Un curioso gatto grigio tigrato senza coda lo fissava assonnato; era accucciato sotto un'alta credenza, colma di statuette di porcellana. V'erano esposti ometti in miniatura e lucidi animali, soprattutto cani e cagnolini antropomorfizzati - e di sesso femminile, a giudicare dai fiocchetti, dal pizzo, dai tutù, dalle mantelline rosa. Il loro creatore era stato così fedele e coerente nel rappresentare, per portare un esempio, il concetto di bambina-barboncino vestita da francesina, che il risultato era una serie di variopinti fenomeni che avrebbero traumatizzato un bambino sano e fatto inorridire un adulto dotato di gusto. La casa doveva essere a corto di entrambi.
La donna anziana stava quasi cantilenando, nella stanza a fianco. "E Luigi, che ha il mutuo, l'auto da pagare... e mica chiama il fratello, che tiene i concorsi alla..."
La voce più giovane la interruppe, "quello s'è sempre fatto mettere i piedi in testa! Perché deve essere onesto, lui... sì... non ha capito che fanno tutti così - e intanto la figlia non ha nemmeno potuto scegliere la sala che voleva per-"
"SESSANTUNO" concluse la terza donna.
Il ragazzo ridacchiò riconoscendo gli stessi, eterni discorsi e si dedicò a decifrare nella semi-oscurità il contenuto dei ritratti alle pareti. Era una collezione di uomini e donne serissimi, bambini immobili, giovanotti impomatati e signorine con le mani in grembo, che per caratteri diversi risultavano innegabilmente interessanti. Alcuni di un'avvenenza primitiva o semplice, altri di fascino più sottile. D'un tratto trovò la stanza e la casa più rispettabili, come accade quando si scorge profondità o peculiarità dove prima si percepiva squallore. Comunque, si disse che aveva fatto bene a lasciare per ultima la visita ad un'ignota, distante parente: i discorsi dell'altra stanza lo stavano nauseando! Sarebbe partito con sollievo ed una leggerezza ancor maggiore...
Sussultò sentendo una porta richiudersi alle sue spalle.
Un uomo corpulento e baffuto con una vecchia giacca di lana grigia e le scarpe macchiate di fango secco, appena emerso dalla cucina, si diresse verso l'uscita calcando sulla testa un'antiquata coppola nera.
Gli fece un cenno passandogli vicino, "'giorno."
"Salve... auguri... sa mica se la signora Tina..."
L'uomo si fermò e lo squadrò torvo, poi guardò la porta a vetri. "Ah, Tina. Sì... tu a chi appartieni?"
"Sono il nipote di..."
"Lo vuoi un po' di liquore? Prendi, prendi." Raggiunse una vetrinetta, la aprì, colmò e porse un piccolo bicchiere all'ospite, servendosi poi da solo.
"Stamattina", continuò guardando il fondo del bicchierino, "ho portato qua cinquanta - no, aspetta," alzò gli occhi al soffitto e protese il mento, "cinquantacinque chili d'olio da Tordelli... me lo merito un cordiale, che dici?"
Il ragazzo annuì rassegnato e bevve anche lui il liquido denso e scuro. Era forte e speziato, curiosamente gli riportò alla memoria impressioni d'infanzia, vecchi armadi e pellicce. Storse la bocca. Un effluvio disgustoso, di incenso e sudore, salì indesiderato. Per cancellarne il retrogusto morse subito un altro dolcetto - l'uomo approvò annuendo in silenzio.
Mentre masticava pensò a quel nome. "Hanno riaperto? Mio padre mi diceva che erano chiusi dai tempi della guerra. Una volta, in campagna, mi indicò i loro vecchi fondi - perciò me lo ricordo. Mi mancheranno certe cose..."
"Riaprì subito... solo il grande morì in guerra. Sull'Isonzo. Gli altri fratelli lo riaprirono, il frantoio."
L'uomo buttò giù un secondo bicchierino guardandosi intorno circospetto, poi riprese. "E quindi te ne vai. Quanti anni tieni?"
"Ne ho quasi trenta. Sì... vado all'estero."
"Trent'anni - e non ti sei ancora sposato?"
"Quasi trenta. No... ho conosciuto una ragazza fuori. Non è di queste parti."
"Ah."
Davanti all'espressione contrariata ed al suo silenzio, A. non poté che sorridere nervosamente, distogliere lo sguardo ed aspettare.
"Mah, fammene andare", disse finalmente l'uomo portando una mano al cappello; s'affacciò fuori e corse via sotto la pioggia, sbattendosi la porta dietro.
Era ancora solo nella penombra, fra vecchie suppellettili. Cercò con gli occhi il gatto, ma doveva essersi nascosto.
"Eh, Nicoletta... com'è morta... cancro?" s'interrogò lenta l'anziana donna nell'altra stanza, spegnendosi poi in un basso mormorio.
"No, epatite! Con tutti i ragazzi che frequentava... tornava dall'università ogni volta con un amico diverso," rumore di braccialetti o ninnoli scossi, "tutta contenta, quando la madre non poteva permettersi manco-"
"Ictus. VENTISEI" tagliò corto la terza.
Basta, pensò A.
Si diresse verso la porta, deciso a far soltanto gli auguri ed andarsene. Non gli importava più nulla della forma, ormai, solo di partire.
"Buongiorno."
Tolse la mano dal pomello e si voltò. Una ragazzina vestita d'un insolito abito bianco, lungo fino ai piedi, e una cuffietta di cotone sui capelli, lo guardava sospettosa con stretti occhi neri. Sembrava anche lei uscita da una vecchia foto, un album sbiadito.
"...Ciao" rispose esasperato.
Poi indicando la porta a vetri quasi supplicò, "potresti avvisare tua nonna che c'è il nipote di..."
"Non è mia nonna, signore."
La bambina s'avvicinò. Aveva lucide scarpette bianche e uno strano colorito - era terribilmente emaciata. Per la prima volta nella sua vita A. si vide fare un'autentica riverenza, ma solo accennata, come un gesto consumato.
"Siete voi che mi portate al mare oggi? Il mio babbo dice che mi fa bene l'aria di ionio."
"Odio..." all'improvviso la sua tasca emise un suono buffo, e A. estrasse il telefono cellulare per vedere chi gli avesse scritto. "Scusami..."
Gli occhi della piccola si spalancarono, girò fulminea sui tacchi e corse d'un fiato a chiudersi in cucina.
Rimase solo ed incredulo, nelle orecchie l'eco dei rapidi tacchi che scivolavano sul pavimento.
Si grattò il mento. L'assurdità della situazione aveva raggiunto la misura. Che ci faceva ancora lì? Aveva tanto da fare...
Prese un ultimo dolcetto col candito verde - erano davvero buoni - indossò il cappotto e uscì risoluto senza voltarsi.
Le ultime gocce di pioggia scivolavano giù in silenzio dai tetti bassi, il cielo s'andava aprendo. S'avviò respirando profondamente aria fresca e umida.
Camminava quasi saltellando, libero - poi rallentò, smarrito nei pensieri; un vago senso di colpa emerse, ma per quale colpa? Lui era diverso - le origini contavano poco, nulla di quel vecchio mondo lo toccava...
Raggiunse l'auto. Finalmente non pensava a niente, se non al suo futuro - altrove. Fuori. Girò la chiave e partì subito. Aveva valigie da finire...

Nel frattempo, nell'altra stanza, un fuocherello illuminava tre donne in circolo sotto nere mantelle all'uncinetto.
A guardarle da vicino, si sarebbero dette una sola.
L'anziana inveì, gemendo. "E se ne andò via... quei poveri genitori, chi doveva pensare a loro? Dopo tanti sacrifici..."
La giovane schioccò la lingua, superba. "Ma chi si credeva di essere... morì in un incidente, no?"
La terza annuì e tagliò di netto l'esile filo. "VENTINOVE. Ih, tombola."

mercoledì 24 dicembre 2008

Consigli vitali

Alcune segnalazioni dalle nebbie mentali di festivo gaudio (non il mio).


This Is Where We Live - Concordo, ora più che mai...


E per chi ama estetica e scienza vittoriana rese divertenti - in una parola: steampunk - un pratico consiglio per gli acquisti.
(Occhio all'invasione di caratteri giapponesi, sicuramente traducibili in fiction riguardanti studentesse di 18 anni (come no) alle prese con tentacoli ed ecatombi lucertolesche partorite da revanchisme nucleare.)

Perché, distinti gentiluomini e membri dell'Accademia, quando Vi perderete in un fumoso vicolo di Londra, quando le sale della Royal Society saranno lontane come il suono del Big Ben, quando insomma un brutale branco di morlock ghignanti emergerà dal sottosuolo per strapparVi le braccia e cibarsene, su due cose potrete contare: un intelletto tenacemente positivista ed il Vostro personale SUIEKICHI.
Solo ottone, solidi ingranaggi, vetro anti-acido*.

Suiekichi. E sapete in che epoca siete.

*Attenzione: garanzia limitata al secolo XIX.

martedì 23 dicembre 2008

Elegia

[Dal racconto Memory Lane]

[...]
La vettura pesante ripartì con un sussulto. Pochi incroci dopo, il susseguirsi di dormitori suburbani lasciò spazio alla crescita indiscriminata e repentina di torri sventrate illuminate dai falò dei collettivi; i fuochi accesi e gli scheletri emergevano dalla spessa atmosfera grigia alternandosi ad evanescenti lampioni, mentre la strada era via via conquistata dalle baracche dei recuperatori e cresceva l'anonima calca agli ingressi dei parcheggi abbandonati.
Dovevo proseguire a piedi - era l'ora di punta, per la città che non sogna più. Pagai il tassista ed uscii sull'affollata via laterale, la mano sinistra a reggere un fazzoletto sul viso come vano filtro per l'aria putrida.

Nessuno nella folla ci teneva a farsi riconoscere; creature solitarie fendevano la nebbia col muso allungato da goffi respiratori e s'affrettavano verso il più vicino, polveroso bazar ricavato nelle perdute hall corporative - il cammino segnato da ideogrammi semplificati al neon, il passo pesante di pioggia e fango.
Si nascondeva chi cercava fantasmi del passato, le mani cacciate nelle tasche dove il sudore scivolava su dischi di plastica argentata, lisciando con le dita le fragili parti mobili di cassette e standard fantasiosi pre-Crollo; s'affacciavano discreti gli sfruttatori e adescatori con umani in affitto sottobraccio: tramite artigianali elaborazioni di vecchi dati, potevano vendere a caro prezzo un corpo per un'ultima scopata, un ultimo abbraccio, le ultime parole mai dette, ogni volta l'ultimo sospiro di chi sa bene di illudersi con parziali sostituzioni sensoriali, ma tornerà, quando crederà di poter pagare.
Mi avviai quasi alla cieca verso un luogo familiare distante pochi isolati, tastando anch'io una vecchia foto ingiallita, e sperando che m'avrebbe portato da Karo, o almeno al suo ultimo laboratorio.

Camminando lanciavo di sfuggita occhiate alle sinistre architetture che s'arrampicavano oltre la nebbia e vigilavano silenziose sulle contrattazioni di strada, sui sommessi lamenti e le sordide imprecazioni, sull'abbaiare distante delle canne d'un fucile. Mi accorsi di canticchiare a labbra chiuse un vecchio motivo; scossi la testa e mi feci strada attraverso l'ovattato brusio della folla.
Dagli invisibili recessi di cupole geodetiche abbandonate che amplificavano il maltempo in repentini scrosci e trascinavano sui marciapiedi metallo corroso, dall'alto di arcologie gotiche squilibrate per consigli di amministrazione di età media vent'anni, dai labirinti trasparenti dei loro freddi serragli cibernetici e morte bioserre ecologiste, dal vetrocemento sporco del fallimento e fra le lamiere gelide delle baracche d'opportunismo perverso cadevano gocce dense e ristagnava l'aria sulla calca di accattoni di tecnologie obsolete e disperati ostaggi del passato, fuori dagli schemi d'ogni mercato se non quello nero della memoria.
M'ero promesso di non tornarci, di resistere alle languide sirene della nostalgia, ma la posta in gioco era alta. S'era sempre chiamata così, questa micro-città gloriosa divenuta miserabile corte dei miracoli senza mistero, tanto nell'ascesa fatta d'intangibili tesori custoditi in sterminati datacenter, quanto nella caduta di meschina, imprevedibile rapidità.
Memory Lane, sempre la stessa.

Mi fermai presso un sushi bar convertito in tana minimalista per inoffensivi tossici, gli ultimi consumatori per le scorte in esaurimento di droghe superate. Dall'altro lato della strada spuntava, sopra la nebbia e il mercato di circuiti a peso, l'austera e ripetitiva struttura dell'Arcade Inn, diventato tela per acrobatici nostalgici delle bombolette spray che ne avevano trasformato la facciata in una danse macabre dei nostri anni: la selva di insegne temporanee e schermi luminosi sospesi sui passanti illuminava a tinte fosche, poi nascondeva, poi rendeva elettriche e brillanti in combinazioni infinite le arcate cieche nelle quali sfilavano violenti poliziotti, grassi mogul dei media, sinuosi pifferai di demoniaca grazia che tiravano per la veste una spennacchiata morte di candide ossa, catrame e piume.
Ma ciò che mi interessava era il piccolo ristorante cantonese al livello della strada: mi diressi verso il marciapiede opposto percorrendo gli stretti corridoi lasciati liberi dalle baracche e passai veloce nei vicoli di lamiera che sapevano di acido di batteria e salsa di soia evitando di ricambiare lo sguardo dei recuperatori. Mi fermai prima d'entrare, sommerso dai ricordi. Le due vetrine del ristorante erano state sostituite da opachi fogli di plastica con gli ideogrammi a vernice nera; la serpeggiante insegna in legno rosso e dorato non esisteva più.
"Chàng Mào" si chiamava, capelli lunghi - pessima scelta per un ristorante, a meno di conoscere dettagli della storia cinese. Erano passati quasi dieci anni da quando vi ero entrato l'ultima volta.
Miseria.
[...]

giovedì 11 dicembre 2008

Nighthawks

Una chiazza rossa giace in un calice brillante; tediosa ripetitiva musica si stende fra luci colorate smorte su spray effetto-neve e risate metà olandesi, metà studentesche; monta la certezza di non essere nel posto giusto.
Coi gomiti sulla spugna verde inseguo l'ultima parola di sintesi e fuga da annotare sul taccuino; il pub rimarrà nella memoria...
"Incospicuo", mormora il ragazzo in blusa a scacchi sollevando sul bancone un vassoio di bicchieri che gli appannano gli occhiali.
"Incospicuo, grazie... non l'hai chiamato Sherlock solo perché è la prima entità inglese che t'è venuta in mente."

Serro il libretto nel palmo e continuo la fuga all'esterno, oppresso dal cielo basso e elettrico; le note del Bolero balzano soffiate fra i vicoli e le logge, sopra le facciate e lambendo le finestre solitarie di una città morta, perché è Dicembre - il resto è vetrina e fantasma del Natale futuro.
E' questo il momento di fuggire la noia, quando l'alcool basta a sognare il contatto, il respiro della folla sveglia che attende solo me. Non rimanere solo lungo la strada, è l'imperativo; eppure scorro in fretta e schivo chi si muove fluido e misurato, in compagnia e a suo agio, come se appartenessimo a notti parallele, a orchestre rivali.
Sotto un portico rialzato camerieri in nero piroettano fra locali gemelli dove bellissima gente - così appare nella distante clausura dei bruciatori, dei cappotti serrati, delle lucide labbra, dei sorrisi, degli occhi aperti per altri occhi - consuma il suo tempo, ma vado oltre per osservare poche vecchie bici incastonate sotto volte di lanterne e cavi tesi, onnipresenti, ingannevoli linee di fuga.

Giro nel buio verso la musica, non saprei darle un nome (un fantasma lungo rimane impresso, nel passaggio più luminoso, sul sensore di un fotografo di viali e luminarie): lo trovo all'angolo di una strada fredda, vestito per il gran concerto, e potrebbe essere il flauto traverso più virtuoso del mondo. Forse un giorno il suo fiato varrà qualcosa; mi fermo ad ascoltare cercando nelle tasche.

Al proprietario curvo manca un mignolo, nell'antro notturno segnato da scale ripide, scarti di un pasto cinese e un raro gatto.
"Non abbiamo da cambiare", dice guardando sopra le mie spalle quando entro e mi fermo dopo un passo.
Troppo ansioso per comprendere, ottengo comunque un bicchiere e un posto ad un tavolo sbilenco con la schiena alla parete. E' così sgraziata, vicina alla Terra questa inseparabile collezione di vecchio mobilio e bevitori, che mi chiedo come mai non ci sia selezione all'ingresso.
Cresce in ritardo la convinzione di poter parlare solo con chi pago, posto che scambiare parole sul tempo e battute di surreale incomprensione con estranei sia parlare - e accidenti se lo è, lo è davvero, perché gli estranei sono un'invenzione. Tratto tutti male allo stesso modo, sempre, in attesa che qualcuno semini nuove asole nel mio cappotto e mi lasci in pace, a scivolare nella calma fibrillante, in rivoli inarrestabili, come l'ennesimo fondo scuro di sedimenti e bruciore che fisso a lungo per mantenere la testa ferma.
Scrivo in regime di sintassi libera; i battiti della gamba corta scandiscono le righe e penso di non aver mai ballato con un tavolino così incantevole.

Fuori oscillo.
Nella piazza irregolare e vuota guardo il lastricato indossando e togliendo i guanti ruvidi e chiedendomi quale sia il prezzo di una risata ferocemente libera, senza compromessi e freni. Non ho abbastanza denaro con me.
Tre anime attardate si avvicinano chiedendo di farsi fotografare. "Forse un giorno varrà qualcosa..." dico a mezza voce arretrando. Riservo loro l'angolo a sinistra, contro l'oscuro panorama: ne saranno delusi. Ma detesto il centro. Ogni cosa è ai margini, alla periferia dello sguardo. Non muovere gli occhi, ora, lo farai fuggire.