martedì 23 dicembre 2008

Elegia

[Dal racconto Memory Lane]

[...]
La vettura pesante ripartì con un sussulto. Pochi incroci dopo, il susseguirsi di dormitori suburbani lasciò spazio alla crescita indiscriminata e repentina di torri sventrate illuminate dai falò dei collettivi; i fuochi accesi e gli scheletri emergevano dalla spessa atmosfera grigia alternandosi ad evanescenti lampioni, mentre la strada era via via conquistata dalle baracche dei recuperatori e cresceva l'anonima calca agli ingressi dei parcheggi abbandonati.
Dovevo proseguire a piedi - era l'ora di punta, per la città che non sogna più. Pagai il tassista ed uscii sull'affollata via laterale, la mano sinistra a reggere un fazzoletto sul viso come vano filtro per l'aria putrida.

Nessuno nella folla ci teneva a farsi riconoscere; creature solitarie fendevano la nebbia col muso allungato da goffi respiratori e s'affrettavano verso il più vicino, polveroso bazar ricavato nelle perdute hall corporative - il cammino segnato da ideogrammi semplificati al neon, il passo pesante di pioggia e fango.
Si nascondeva chi cercava fantasmi del passato, le mani cacciate nelle tasche dove il sudore scivolava su dischi di plastica argentata, lisciando con le dita le fragili parti mobili di cassette e standard fantasiosi pre-Crollo; s'affacciavano discreti gli sfruttatori e adescatori con umani in affitto sottobraccio: tramite artigianali elaborazioni di vecchi dati, potevano vendere a caro prezzo un corpo per un'ultima scopata, un ultimo abbraccio, le ultime parole mai dette, ogni volta l'ultimo sospiro di chi sa bene di illudersi con parziali sostituzioni sensoriali, ma tornerà, quando crederà di poter pagare.
Mi avviai quasi alla cieca verso un luogo familiare distante pochi isolati, tastando anch'io una vecchia foto ingiallita, e sperando che m'avrebbe portato da Karo, o almeno al suo ultimo laboratorio.

Camminando lanciavo di sfuggita occhiate alle sinistre architetture che s'arrampicavano oltre la nebbia e vigilavano silenziose sulle contrattazioni di strada, sui sommessi lamenti e le sordide imprecazioni, sull'abbaiare distante delle canne d'un fucile. Mi accorsi di canticchiare a labbra chiuse un vecchio motivo; scossi la testa e mi feci strada attraverso l'ovattato brusio della folla.
Dagli invisibili recessi di cupole geodetiche abbandonate che amplificavano il maltempo in repentini scrosci e trascinavano sui marciapiedi metallo corroso, dall'alto di arcologie gotiche squilibrate per consigli di amministrazione di età media vent'anni, dai labirinti trasparenti dei loro freddi serragli cibernetici e morte bioserre ecologiste, dal vetrocemento sporco del fallimento e fra le lamiere gelide delle baracche d'opportunismo perverso cadevano gocce dense e ristagnava l'aria sulla calca di accattoni di tecnologie obsolete e disperati ostaggi del passato, fuori dagli schemi d'ogni mercato se non quello nero della memoria.
M'ero promesso di non tornarci, di resistere alle languide sirene della nostalgia, ma la posta in gioco era alta. S'era sempre chiamata così, questa micro-città gloriosa divenuta miserabile corte dei miracoli senza mistero, tanto nell'ascesa fatta d'intangibili tesori custoditi in sterminati datacenter, quanto nella caduta di meschina, imprevedibile rapidità.
Memory Lane, sempre la stessa.

Mi fermai presso un sushi bar convertito in tana minimalista per inoffensivi tossici, gli ultimi consumatori per le scorte in esaurimento di droghe superate. Dall'altro lato della strada spuntava, sopra la nebbia e il mercato di circuiti a peso, l'austera e ripetitiva struttura dell'Arcade Inn, diventato tela per acrobatici nostalgici delle bombolette spray che ne avevano trasformato la facciata in una danse macabre dei nostri anni: la selva di insegne temporanee e schermi luminosi sospesi sui passanti illuminava a tinte fosche, poi nascondeva, poi rendeva elettriche e brillanti in combinazioni infinite le arcate cieche nelle quali sfilavano violenti poliziotti, grassi mogul dei media, sinuosi pifferai di demoniaca grazia che tiravano per la veste una spennacchiata morte di candide ossa, catrame e piume.
Ma ciò che mi interessava era il piccolo ristorante cantonese al livello della strada: mi diressi verso il marciapiede opposto percorrendo gli stretti corridoi lasciati liberi dalle baracche e passai veloce nei vicoli di lamiera che sapevano di acido di batteria e salsa di soia evitando di ricambiare lo sguardo dei recuperatori. Mi fermai prima d'entrare, sommerso dai ricordi. Le due vetrine del ristorante erano state sostituite da opachi fogli di plastica con gli ideogrammi a vernice nera; la serpeggiante insegna in legno rosso e dorato non esisteva più.
"Chàng Mào" si chiamava, capelli lunghi - pessima scelta per un ristorante, a meno di conoscere dettagli della storia cinese. Erano passati quasi dieci anni da quando vi ero entrato l'ultima volta.
Miseria.
[...]

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