giovedì 15 gennaio 2009

Cerco casa a Milano - Part deux

E per esorcizzare l'orrore sento l'impulso di raccontare, sotto una patina di falsità che ne preservi la fedeltà, cosa ho visto negli anni passati cercando una stanza in affitto a Milano...

Pratica n°2
Milano, via Padova, esterno sera.
Sirene ululano in lontananza, sirene e lampeggianti soffocati dal grigio giallastro smog incombente, un manto pietoso per travestiti latini e arabi sobri marci. Al segnale convenuto, come in concerto, braccia tremanti serrano lucchetti e tirano giù saracinesche cigolanti; il fragore richiama dalle tane di bizantino ozio le oscene violente creature del crepuscolo, poi si spegne in un'eco sinistra, la morente risata del giorno, l'ultima campana per chi ambisca mollemente a un'illusoria sicurezza. Io rimango impassibile e schiaccio un mozzicone ardente, osservo la scena nella fredda luce di un kebab all'angolo, dove nessuno sembra parlare la mia lingua, nessuno può esser guardato negli occhi.
Ma sono ancora vivo - e chiaramente con una buona scorta di stereotipi noir!
Stando agli inoppugnabili quotidiani gratuiti per pendolari e al sentire comune, posso affermare che non troverò mai un covo di feccia e di malvagità peggiore di questo; inoltre la mia immaginazione imbevuta di letteratura di genere rende questa strada ancor più brulicante e dannata. Ho un ottimo presentimento: sarà la mia nuova casa?
Mi avvio fiducioso schivando le camere singole economiche di cemento armato e le mini-discariche di un sottopassaggio buio. Poi il segno sfavillante: in fondo al tunnel, mani gigantesche su un cartellone discretamente illuminato come San Siro mi accolgono e mi invitano ad ascoltare la parola di Dio e unirmi al gregge. Come un tenebroso antieroe, sprezzante dell'aiuto evidentemente offerto dalla Provvidenza - nella forma di sorridenti energumeni biondi dal volto di bambini e targhette dorate da anziani - proseguo a testa alta, avendo ormai trovato la mia strada.
In teoria.
Mi fermo spaesato davanti ad un antro fuligginoso e deserto. 'OFFICIN/ A_FA', dice il cartello penzolante.
Rileggo l'annuncio stampato: "Trilocale arredato, vicinanze via Padova, libero da subito". Per quanto lo esamini attentamente, non v'è nessuna menzione di olio motori e calendari di Max.
Ma oltre i locali dell'officina, il grande passo carrabile si apre su un vecchio atrio dalla geometria imperscrutabile, fatta di molti ingressi arrugginiti, scale di pietra levigate dall'uso e dalla pioggia, passaggi di cui non s'intravede la fine. Spinto dall'inquietudine crescente, con gli occhi sbarrati del tonno intrappolato fra le flotte a Lepanto - dato che ho appena superato i locali di un qualche comitato della Lega Nord - varco l'ingresso e scopro una pulsantiera.
Suono e rimango ad ascoltare con particolare attenzione le indicazioni della donna, avendo in dotazione il senso dell'orientamento di un navigatore satellitare rotto su Marte.
"Ora ti apro il portone; attraversa ed esci dall'altra parte"
"Bene, arrivo-"
"Poi stai sulla sinistra del giardino - non preoccuparti del cane, è buono, non morde, prendi il passaggio con l'insegna del parrucchiere e in fondo..."
"...mmm..."
"...dopo le gabbie di conigli prendi le scale con la ringhiera, sul pianerottolo trovi due porte di ferro, apri quella rossa - ah, la chiave è appesa al gancio alto - ti fai tutto il corridoio scoperto, poi ci sono delle scalette e sei praticamente arrivato."
"Signora, che faccio coi dolcetti sul tavolo?"
"Eh?"
"Dico, può ripetermi i passaggi dal giardino in poi?"
Catapultato incredulo in una casbah meneghina, finisco gli ultimi, stretti, alti, viscidi gradini esposti agli elementi reggendomi strenuamente alla ringhiera e finendo di seminare, con fiabesca previdenza, briciole di piadina per kebab.
In casa c'è una donna dall'aria assente, se mi perdonate il controsenso. Stinta, decolorata anzi, e secca, sembra stesse volando piuttosto alto prima che suonassi al suo citofono rompendole il trip.
Per iniziare col piede giusto, il trilocale ne ha due. A onor del vero, la stanza in cui sono entrato è spaziosa, con lato cucina e soggiorno teoricamente separati - o meglio, così suggerirebbero con un po' di immaginazione le nude pareti e il muretto divisorio, se l'arredamento non fosse stato brillantemente concepito, accuratamente disegnato e scrupolosamente supervisionato da un'orda di gremlin incazzati.
Sul pavimento schivo un materasso chiazzato appartenente di sicuro ad una tigre dall'umore mercuriale e dalla dieta orribilmente sbagliata, ciotole piene a metà d'acqua stagnante, lettiere colme per gatti obesi. Non si contano i piatti rosa, le tovagliette e le tazze di Hello Kitty sparsi per la stanza; si contemplano, poi, imperscrutabili mestoli e colini allo stato brado; nell'aria impera l'inconfondibile puzza dei suddetti felini da compagnia.
Il mio sopracciglio mentale di disapprovazione è già inarcato allo spasimo da diversi minuti. Quel poco che resta della casa - piena di peli, malridotta e maleodorante come Robin Williams in La leggenda del re pescatore - nonché la sua esclusiva collocazione nelle viscere labirintiche dei bassifondi mi persuadono che sto solo perdendo tempo.
Ma ciò che stimola la mia esiziale curiosità è che non ho visto gatti, né qui, né all'esterno, nei meandri appena attraversati. Strano. Inizio a pensare si tratti di una gattara di gatti invisibili. Il tipo peggiore.
Lei mi guarda con un accenno di sorriso, avendo capito che sono nel posto sbagliato.
Io sorrido accondiscendente, avendo anche capito che è meglio non fare mosse brusche.
"Allora...ehm... ha molti gatti?"
"Sono dell'inquilina che se ne sta andando."
"Aaah, ecco, li ha già portati via..."
"No, sono sul balcone di dietro."
"Oh, c'è un balcone! Posso vederlo?"

Maledetto - mi udite, misericordiose potenze? Maledetto sia il mio scrupolo pignolo, maledette le palpebre sottili che non schermano dal vero orrore.
Ancora adesso, quando la massa polimorfa miagolante e strusciante graffia i margini delle mie visioni febbricitanti, quando rivedo scostarsi, come un ibrido sipario, le tende di plastica nel caos esploso che l'eterea proprietaria chiamava cucina, mi interrogo su come abbia guadagnato l'uscita, come abbia ritrovato la strada, come sia sopravvissuto alla folla ignobile, e rido; un ghigno lunatico potreste scorgere sul viso stravolto se mi vedeste mentre scrivo, con le parole inadatte di chi non è poeta né sufficientemente folle, di cosa voi ignorate ma vive, vive ugualmente e si stira e si contorce e fa le fusa oltre il portone scuro, oltre i passaggi che si moltiplicano, oltre le scale ripide, nella strada in cui i piccoli crimini umani sono solo la rassicurante, precaria façade dell'abisso d'aliena, pelosa vertigine.

* * *

Eppure, con l'animo scosso ma indomito, la mia ricerca continua... alla prossima puntata.

Nessun commento:

Posta un commento